La figlia del Sole

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Prefazione

Caro lettore, cara lettrice,

chi sei, tu che ora ti appresti a leggere il romanzo da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato? Sei maschio, femmina, padre, madre, marito, moglie, fidanzato, figlio, fratello, sorella?

Sei un’anima candida, pura, innocente oppure una smaliziata ed esperta? Chiunque tu sia, prendimi subito per mano e accompagnami nella lettura del diario di Jasmine. Insieme andremo alla scoperta della sua preziosa intimità.

Ne vale la pena, giacché narratori onnipresenti e onniscienti hanno raccontato perfino l’inenarrabile su divinità, grandi uomini, poveri cristi, eroine e ragazze comuni. Ma hanno taciuto l’inenarrabile.

Scoprirai ora, attraverso una narrazione soggettiva e parziale, il lato nascosto, folle e disperato di una donna, il suo mondo segreto e impercettibile, l’arido deserto, il rigoglio sommerso.

Potrai condividere le sue emozioni più recondite, le passioni, le umane vicende che, forse, riguardano anche te. E, grazie al comune sentire, ti sarà facile comprendere le sue scelte e compenetrarti nei sentimenti muliebri spesso indicibili e inespressi.

da La figlia del Sole di Giuseppina D'Amato, copertina del romanzo

Il dono

da: La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Il postino mi consegnò una raccomandata, poi mi porse la penna capacitiva e il dispositivo su cui apporre la firma grafo-metrica d’accettazione.

A una prima occhiata vidi che la lettera proveniva dallo studio di un notaio. Staccai subito la linguetta posteriore e scorsi le poche righe.

La S. V. è invitata a recarsi presso lo Studio Notarile Ambrosio Nicola & Eredi, in via Roma, il giorno 23 c. m., alle ore 15.00, per l’esecuzione di atti testamentari.

Ero curiosa, e mi chiesi chi poteva avermi nominato erede di qualsivoglia patrimonio. I miei defunti genitori avevano ripartito da tempo i beni immobili e i risparmi di una vita in particelle equali fra noi legittimi eredi.

Pensai a qualche prozio sconosciuto, ricco e generoso, che aveva voluto lasciare a un’altrettanto ignota discendente le proprie ricchezze. Ma per quanto m’interrogassi, nessun parente compariva nei miei ricordi, e, sebbene la circostanza fosse bizzarra, m’imposi di non pensarci più di tanto e mi disposi ad aspettare il giorno e l’ora dell’appuntamento.

Andai all’appuntamento. Appena entrai, vidi la segretaria, munita di tutti i dispositivi di protezione, trincerata dietro una barriera parafiato, che mi indicò un salottino solitario.

Dopo una breve attesa, mi ricevette il notaio, una brunetta di mezz’età, l’aria severa, dietro gli occhiali da presbite appannati a causa della mascherina. Mi comunicò che la signora Jasmine Burton, nelle sue volontà testamentarie, mi aveva nominato erede di un Diario, che ella conservava in deposito. Mi chiese se intendevo accettarlo.

Tacqui sbalordita: ignoravo che la mia amica fosse morta. Ripetè la domanda.
«Sì, ovviamente», la voce morì in gola.
Indossò un paio di guanti monouso, mi porse alcuni documenti, me li fece firmare, poi prese un plico dal primo cassetto e me lo diede attraverso l’apertura del pannello divisorio. Conclusa la pratica, mi congedò con un gesto brusco; misi il pacco dentro la borsa e mi affrettai a ritornare a casa, impaziente di vederne il contenuto.

Appena richiusi l’uscio, stracciai l’imballaggio beige che copriva una scatola piatta di cartone ondulato. Sedetti in salotto, il pacchetto sulle gambe, la curiosità crescente, e aprii la custodia. Conteneva un’elegante confezione avviluppata in carta blu cangiante chiusa da un nastro di raso color oltremare, sotto il nodo una chiave.

Slegai il fiocco, tolsi il foglio e scoprii uno scrigno indaco sigillato da un lucchetto. Quindi afferrai tra l’indice e il pollice la chiavetta dorata, la girai nella toppa, sollevai il coperchio, e trovai un quaderno. Sul frontespizio lessi: La figlia del Sole: diario di Jasmine Burton, 1984 – 1990.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

In un istante, lo spazio-tempo si annullò.

La tormentosa adolescenza, gli errori, le incertezze, i primi amori e l’ingresso nell’età adulta si affacciarono alla soglia della memoria e mi trasportarono nel lontano settembre del 1965, quando conobbi Jasmine a Perugia, nella scuola media Santa Rita da Cascia, classe Ia B.

Presto divenimmo compagne di banco, e complici inseparabili.

Trascorrevamo i pomeriggi estivi nelle sale e nei giardini di Villa Umbra, il casolare dei Graham, tra giochi e rivelazioni inconfessabili, fuse dalla condivisione di comuni crucci: le scaramucce con i coetanei, gli strappi, i traumatici distacchi, l’incerto che ci attendeva.

Spesso raccontava i dispiaceri per le insolite e complesse vicissitudini familiari. Un giorno, nel tentativo di sbrogliare i grovigli dell’articolato albero genealogico, mi mostrò alcune fotografie, quasi a voler presentare la sua famiglia, o schiarirsi le idee.

«Lei è la prima moglie di papà. Questo è il primogenito», puntò l’indice. «Loro sono i miei fratellastri, George e Lucinda. Leila, l’ultima compagna, è appena ventiseienne e ha già avuto due splendidi bimbi da lui, purtroppo sono in crisi. Peccato per i piccoli. Spero non convoli a nuove nozze, sarebbero le quarte», sospirò incerta.

Poi narrò la cronistoria dei suoi antenati, davvero insolita e ingarbugliata per essere vera: ero sì una ragazzina ingenua, ma senz’altro poco credulona.

Le storie famigliari avventurose e travagliate mi parvero inverosimili, soprattutto se paragonate alla monotona e rassicurante calma del mio clan. Ero una contadinella italiana, Jasmine, l’eroina di una saga esotica.

«La tua vita sembra una favola piena di colpi di scena e fatti incredibili.»

«Davvero?» un guizzo attraversò le sue iridi nere. Annuii. «Allora scrivila», socchiuse le palpebre e mi fissò in atto di sfida.

«Che cosa?» chiesi dubitando che non intendeva quello che aveva appena detto.

«La mia storia», confermò seria.

Un gesto allontanò l’idea. «Ma va, non sono mica capace», sorrisi, lei perdonò il mio scetticismo.

La frequentazione durò a lungo, le affinità ci unirono, adolescenti inconsapevoli e speranzose, neppure la maturità le infranse, sebbene ognuna seguisse il proprio percorso esistenziale.

Dopo il diploma, s’iscrisse alla Facoltà di Medicina a Perugia, la sede universitaria vicina al casale, conseguì la specializzazione in Oncologia e divenne assistente universitaria. Decise di consacrarsi alla scienza medica: studiò solerte, si dedicò alla sperimentazione e all’insegnamento accademico.

«La mia missione è salvare le vite umane», sosteneva. «Altrimenti che scopo avrebbe il mio cammino?» «Esistono altri valori.»
«Mi sentirei sprecata, se non mettessi le conoscenze

mediche al servizio dei sofferenti. Siamo creature mortali, meteore nell’universo, vorrei alleviare i patimenti degli ammalati terminali, o almeno rendere meno doloroso il loro soggiorno terreno», affermava febbrile.

Era una ragazza in carriera, la animavano autentici impulsi umanitari e una viva abnegazione da samaritana.

Gli istinti aggressivi, i desideri repressi, i bisogni insoddisfatti confluivano in un inconscio meccanismo di sublimazione che la sospingeva incontro ai sofferenti.

Le cure che donava davano refrigerio all’arsura interiore che piagava ogni sua cellula. La desertificazione era iniziata quando era una cieca derelitta. Allora la mancanza di carezze materne la inaridiva, mentre il prematuro distacco dal padre serpeggiava e doleva.

L’esperienza personale, già allora, mi aveva insegnato che i rimbrotti dei genitori paiono immeritate crudeltà e le momentanee separazioni inspiegabili castighi, che alimentano l’odio furibondo dei bambini, incapaci d’analisi di realtà.

Un magma infuocato divorava la mia amica, ma intravide la salvezza nell’idolatria incondizionata per il prossimo, gli sconosciuti. La dedizione con cui curava i malati e i miseri corpi divorati dal cancro era commovente; le pareva, agendo in tale maniera, di replicare le attenzioni che avrebbe voluto per sé, poiché la psiche era devastata da una cancrena dilagante, che nessuno vedeva. I colleghi, gli amanti non percepivano l’intima devastazione, giacché ella era un’abile dissimulatrice, persino con se stessa.

«I malesseri interiori sono invisibili, l’anima trasparente è una sconosciuta. Sono una creatura di prezioso cristallo: fragile, vulnerabile e invisibile», diceva spesso di sé.

Concorse e vinse al primo tentativo l’incarico di aiuto nel settore oncologico presso l’Ospedale Civile. Poi superò il tirocinio pratico, intraprese la carriera medica, e ottenne il pieno successo professionale. In tal modo costruì un brillante curriculum e conquistò ambiti avanzamenti. Talvolta partecipava a convegni internazionali per aggiornare e approfondire le conoscenze.

Era colta e impegnata, ma la situazione sentimentale era fluida: l’altruismo escludeva la coppia duratura; godeva le gioie quotidiane: la compagnia degli amici, i divertimenti semplici, i piaceri di un erotismo libero e disimpegnato. Collezionò molti d’amanti negli anni. Un ragazzo le rubò la purezza nella lontana adolescenza, e la ferì. Alcuni passarono oltre le maglie della memoria e caddero nell’oblio.

Ebbe passioni travolgenti, fiumi in piena che esondavano devastandola. A ventiquattro anni aveva perso il conto dei partner. Io ero ancora illibata.

L’unico, il prescelto, fu Paolo Virgili, mio compagno di studi. C’innamorammo fra un esame, una versione di latino e un’analisi testuale. Il sentimento nacque per gradi, fiorì in una sequenza lenta e naturale: la conoscenza reciproca, la stima profonda, e le consonanze caratteriali. L’affetto limpido e puro lo nutrì. Dopo la laura, mi chiese di sposarlo. «Vivremo dai miei: risparmieremo l’affitto.»

Tergiversai. Ero legata ai miei parenti, gli amici, Jasmine, i ricordi di gioventù. Ma la nostra povertà mi persuase a seguirlo in Puglia, sperando in una supplenza annuale, o un incarico temporaneo, piccoli assaggi di insegnamento, una frazione di stipendio comunque insufficiente a sopravvivere.

«I miei genitori possiedono una masseria nel leccese. Sorge in una bella piana che declina a mare. Ne hanno ristrutturato una porzione per me», mi allettò.

«Mi garba l’idea», commentai rincuorata.
«Potremmo aiutarli, ci sarebbe di che vivere.»
«Sono molto generosi ad accoglierci, non li deluderemo, se rifiuto ci separiamo, ma non posso perderti», accettai, era mio, non v’era motivo di rinviare le nozze. Ci sposammo innamorati, ricchi di attese, ma disoccupati e privi di mezzi, votati ai sacrifici, nell’animo vaghe speranze.

Era un ottimo inizio: avevamo un rifugio, il resto mancava, e avremmo dovuto conquistarlo.

Salutai Jasmine in un luglio torrido e lontano, la promessa d’incontrarci a Villa Umbra ogni qualvolta gli impegni ce lo avrebbero consentito. Ne conseguì l’abitudine di mantenere frequenti contatti epistolari e telefonici, e di ricongiungerci lì, durante le ferie o le ricorrenze speciali. Sapemmo tutto l’una dell’altra, i nostri cuori erano libri aperti.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Sfogliai il taccuino. Poi iniziai a leggere le righe, le mani percorse da un tremito, parendomi la lettura una profanazione. Le pagine mi sconvolsero.

Ignoravo la vera Jasmine, e ne misconoscevo i patimenti di bambina incapace di esprimersi.

L’adulta aveva mantenuto una zona di riserbo, che io avevo rispettato, sebbene intuissi il disagio e le inquietudini, durante le conversazioni telefoniche sempre più rare negli anni. Scorsi i fogli, il fiato sospeso, l’interesse crescente.

Inoltrandomi negli scritti, intuii che qualcosa di unico e immenso stava per essermi rivelato. Poi la curiosità divenne rispetto che, nel prosieguo, sconfinò nella devozione.

Continuai per ore. Gli amati righi svelarono le recondite vicende e i fermenti sommersi di uno spirito segreto.

Ne emerse un canto che lasciò affiorare una persona sconosciuta, una nuova nata.

Prima Parte 1984 – 1988

Jasmine Burton

da: La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Perugia, venerdì 6 gennaio 1984

Ieri sera, al rientro da un breve soggiorno montano, ritrovai la solita atmosfera intima. Il tepore accogliente dell’appartamento provocò una sottile nostalgia per il clima frizzante, le piste innevate, i paesaggi silenziosi.

Era trascorsa all’incirca mezz’ora, quando il telefono squillò. Pensai a Lei. Invece una voce maschile pronunciò il mio nome e mi augurò buon anno. Ricambiai.

«Le vacanze?» domandò.
«Ottime, e tu?»
«Niente di speciale. Mi sei mancata tanto che mi è venuta voglia di cenare con te, domani», il tono sfrontato.
«Dopo le scorpacciate, dovrei digiunare.»
«No, ti prego, a me piacciono le donne morbide.»
«Ehm», acconsentii, in mente il suo cranio rasato e il sesso rilassante.
«Vengo a prenderti alle otto.» Mi parve di vedere l’accenno d’un sorriso soddisfatto sulle sue labbra carnose, perciò lo salutai laconica, feci cadere il ricevitore sulla cornetta, e accesi la televisione.

Il conduttore del telegiornale commentò l’assassinio del giornalista Giuseppe Fava, freddato da cinque colpi di pistola calibro sette e sessantacinque. «I proiettili non sono quelli usati da Cosa Nostra, si esclude la pista mafiosa. “La mafia a Catania non esiste”, hanno dichiarato le autorità cittadine. Il movente del delitto sembra di natura passionale.»

Dubito. La vicenda ricorda la sorte di Giuseppe Impastato, anch’egli giornalista antimafia, trucidato il 9 maggio 1978, non possono ridurla a omicidio di passione.

Pippo Fava ha fondato I Siciliani, una rivista di inchieste e denunce che analizza al microscopio il potere, la corruzione, gli illeciti, gli imprenditori disonesti, le amministrazioni vendute, l’economia e la società malsana. Ha curato la sceneggiatura del film Palermo or Wolfsburg, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1980, abbastanza per entrare nel mirino dei mafiosi.

Il languore sottile

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Domenica 8

La cena fu deliziosa: l’atmosfera romantica e avvolgente, le pietanze squisite da veri intenditori, prelibati i bocconi gastronomici, i vini inebrianti. Il piacere si diffuse agli organi vitali, un languore sottile e penetrante mi pervase e predispose l’animo agli sviluppi bollenti.

«Vorrei farti assaggiare un millesimato speciale. L’ho tenuto in serbo per te», sussurrò voglioso d’indugiare nella piacevolezza, impossibile rifiutare, mi lasciai trasportare dal suo volere sensuale, senza tentare la benché minima resistenza. Avvolta nella sua malia, desideravo ciò cui lui anelava: mi introdusse nel salotto dell’attico, mi fece accomodare sul divano candido, e uscì dalla stanza.

Tornò subito, fra le mani un vassoio con una bottiglia di prosecco millesimato e due calici, lo pose sul piano di servizio, si sedette nell’arco di luce effuso da una lampada e dalle fiamme nel caminetto in onice, riempì i flûte, le iridi affondarono nelle mie, i calici tintinnarono, il perlage solleticò la lingua e il sentore d’agrume invase la bocca.

Abbassai le ciglia, e assaporai le note melate, che rimandavano a fragranze tropicali.

Intanto, pensavo: “Spero ce l’abbia grande, ma non troppo.” Si avvicinò, mi cinse, e mi arresi.

«Sei fantastica», sussurrò.
«Anche tu.» “Domani saremo amici di letto”, pensai. «Non voglio legami.»

«Neppure io.»

Mi strinse. I nostri corpi combaciarono: il suo ventre tenero e caldo sfiorò i miei glutei freschi e i palmi concavi accolsero i seni. «Sei splendida. Ci sarò tutte le volte che vorrai», mormorò, lambendomi la nuca.

«Sei perfetto», mi girai, e lui mi baciò. Allora sentii il risveglio del suo orgoglio, le dimensioni giuste per me. Mattia non è il divino consolatore al quale agogno, la nostra unione è un fugace esperimento emozionale scaccia ossessioni.

Chissà se mai mi sposerò, se esiste l’uomo che mi darà dei figli e mi vedrà invecchiare?

La poesia amorosa

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Lunedì 10

Tanti sono rientrati dalle ferie invernali, altri si apprestano a partire per qualche paradiso esotico o una sperduta vetta alpina. Ho ritrovato Miriam, la benevola attuale, mai soppianterà Melissa, ma è un’affabile costanza, un’amica rassicurante e positiva che comprende le mie intemperanze e m’accoglie. È buona con me: i tratti materni molto accentuati mi fanno sentire protetta.

Chissà se ha la medesima percezione di sé?

Ha riconosciuto il ruolo che le ho assegnato da quando ci conosciamo, e soggiace alle funzioni surrogatorie: amicali e materne, cui la costringo.

Mi è indispensabile una figura propizia, madre-sorella- amica, dalla cui intima benevolenza dipende la mia stabilità affettiva. L’esistenza di Melissa mi dà coraggio, mentre l’affinità emotiva e concreta fra me e Miriam mi rassicura. Nessun maschio potrà mai darmi il benessere e le certezze che m’infondono le care compagne.

Mi servono delle figure compensative: gli innamorati fugaci sostituiscono le figure primarie, i numerosi amanti sono inganni, un ripiego per ciò che manca. Rimugino i soliti pensieri, sempre incapace di accettare i distacchi. Il fecondatore, padre dei miei fratelli sparsi nel Regno Unito, genera nostalgia. Mi mancano Paolo e Melissa.

La disperazione mi fa compagnia; i molteplici impegni e la carriera colmano il vuoto. Soffro e nessuno lo sa.

Debbo tutelarmi, rifuggo quest’inferno solitario, sono un’abbandonologa devastata dall’incessante ritrovamento del reale nel luogo più desolato del pianeta: il mio spirito.

Quando ero piccola, avrei voluto indugiare sul simulacro ancestrale, e smarrirmi nel seno nutriente, e dissolvere l’angoscia e il degrado. Ma quel fantasma fu crudele: mi lasciò denutrita, le pulsioni inappagate. Ora mi dibatto tra lo scotoma ottenebrante e la sublimazione, gli inconsci meccanismi difensivi che ancora agiscono nel sotterraneo ed evitano l’insorgenza dei conflitti intrapsichici. Sono conscia: la bimbetta, che ero, mise in atto le uniche difese possibili e normali. L’adulta teme di scivolare nella patologia nevrotica.

La professione rivela la necessità connaturata in me di trasformare gli impulsi istintuali fino a elevarli a livelli eticamente accettabili. La sublimazione, al pari di tutti i meccanismi difensivi, cambia l’oggetto della spinta, e perviene a una sorta di scioglimento liberatorio. La carica legata al processo dinamico, per mezzo di un’adeguata trasformazione dello scopo, si stempera in un’attività socialmente validata, con significati e contenuti buoni per me, e conformi alla morale. In tal modo allontano i moti aggressivi e impalpabili e i devastanti sensi di colpa.

Da manuale di psichiatria, ehm.

In effetti, è proprio questo: volendo sublimare gli stimoli emotivi aggressivi ho dovuto mitigare le pulsioni, così ho canalizzato l’aggressività in un’intensa opera intellettuale e altruistica. Sono irrisolta, in crisi, cado negli eccessi, inabile a gioire dei sentimenti puri. Lo stupore dell’innamoramento si dissolse nell’attimo in cui il primo mi ferì, la poesia amorosa mi lascia indifferente. Il pudore, che cos’è?

La scoperta degli altri m’annoia, subisco poco o nulla le fascinazioni, ricuso ciò che sfugge al controllo razionale, e ne svela la fragilità.

L’idea che gli amici e l’amato possano cogliere la mia delicatezza indifesa inibisce i moti spontanei e il naturale fluire percettivo bloccato fra la consapevolezza e l’inconscio.

Mi ritraggo, se una persona buona, o un evento piacevole s’affaccia alla coscienza, pavento di rivelarmi al compagno e persino a me medesima. Prediligo la leggerezza e rifuggo le implicazioni sentimentali, cerco la comunicazione attraverso congiungimenti facili e sporadici. La sessualità appagante, la professione e il benessere hanno un enorme valore per me.

Intanto una malattia sottile e invasiva serpeggia: devo imparare ad ascoltare i discorsi intrapsichici e riconoscere l’esigenza profonda di donare e ricevere, ma il cammino è faticoso. Sublimando, anzi regredendo alla fase orale, faccio degli acquisti al supermercato, il commesso del reparto rosticceria mi sorride. Ritrovo il buon umore nel prosaico pacificante.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Venerdì 14

A breve seguirò un master di specializzazione in oncologia. Desidero acquisire nuove competenze e votarmi alla ricerca. Nell’ambiente accademico mi dedico ai complessi problemi connessi alla prevenzione e alla cura dei tumori, dall’esordio sino allo stadio finale. Il compito mira ad ampliare le frontiere delle conoscenze e a promuovere una comunità medica aggiornata e in formazione, mi calza a pennello il ruolo di formatrice dei neoassunti.

Occorre personale altamente qualificato per sconfiggere il cancro, la malattia dei nostri tempi, e io sono in trincea.

Domenica 16
Ieri andai a cena da Miriam e Friederich, di origini bernesi, broker di professione. Coi loro due figli abitano uno splendido casolare in collina.

C’era anche un tale Milo Hösli, amico di gioventù di Friederich, nonché imprenditore tessile, esperto d’arte, che si diletta di scultura lignea. I miei amici ne hanno alcuni esemplari: corpi umani drammatici e contorti, figure femminili abitate da passioni tragiche, contrite, le membra avviluppate in fiammelle immaginarie.

Questo è quanto so di lui, per il resto ho riportato impressioni discordanti d’un giovane di bell’aspetto.

Sulle tempie, i primi fili argentei schiariscono la massa scura un po’ mossa. Il taglio cortissimo, che fa intravedere la forma del cranio, è gradevole: detesto i capelli lunghi fino alla nuca, scalati e gonfi.

Sembra un lord dei tempi andati, uno yeoman farmer di campagna. I tratti puri ingentiliti dai grandi globi oculari scuri sembravano contenere il mondo e abbracciare me. Le cornee acquose e profonde paiono le custodi di gravi misteri, l’espressione mite ha un nonsoché di familiare. È introverso, poco espansivo, parla raramente.

Di solito, respingo i taciturni, poiché comprendo meglio chi si esprime tramite i messaggi espliciti, la mimica mi confonde. I vocaboli sono decisivi a chiarire i contenuti non verbali, vaglio i singoli lemmi, li valuto, scelgo chi pronuncia le frasi giuste, detesto gli inutili cicalecci e i toni striduli.

Ma lui è un enigma interessante.

Sincera e nuda

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Ieri passeggiavo lungo i porticati del centro storico, fra i cumuli di neve alti, pietrificati dal gelo, e fissavo le vetrine, noncurante dei passanti, quando un richiamo mi distolse.

«Jasmine», era Milo.

Strano incrociarlo qui, pensai, mentre si avvicinava. Quando mi strinse la mano, avvertii una presa decisa dal carattere forte. Chissà che tipo è? Ma non si giudica la personalità dall’intensità di una stretta.

«Posso unirmi a te?» Acconsentii.

M’affiancò e proseguimmo nel piazzale, una breve passeggiata. Per vincere l’imbarazzo, iniziai a parlare a getto continuo: in genere, chiacchiero meno, apprezzo la scarsa loquacità e ricuso chi m’inonda con frasi torrenziali. È un buon ascoltatore, la compagnia piacevole.

Faceva molto freddo, le guance bruciavano, anche lui aveva la punta del naso arrossata.

«Che ne dici di sederci in un bar?»
«Volentieri, sto morendo di freddo.»
Entrammo in un locale surriscaldato, ordinai una cioccolata calda con la panna, al diavolo la linea, sono golosa: la bevanda mi ritemprò. Lui prese un bourbon.

«Come mai sei qui?» mi informai impetuosa. «Credevo fossi partito», aggiunsi per stemperare il tono supponente e indagatorio. Sono molto curiosa, non indiscreta, ma amo porre domande ai miei interlocutori. «Scusa, intendevo…», balbettai imbarazzata.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Lunedì sera, 31

«Non scusarti, sono bloccato dalla nevicata, alloggio nei paraggi.»

«Hai portato a termine i tuoi affari?»

«Ho acquistato dei bei filati a Prato, e ho trovato prodotti innovativi anche nel modenese. Purtroppo il settore tessile è in crisi, speriamo sia superabile», un sospiro tradì l’apprensione.

La sua disponibilità mi indusse alle confidenze, e gli narrai episodi personali che credevo dimenticati. Fu tutto facile e spontaneo, mi lasciai andare, e abbassai le difese. Crollarono i paletti, fui sincera e nuda. È insolito, ma sta accadendo, pensai, parlando dei miei prossimi impegni professionali. Mi stupì il suo interesse, ne fui persino imbarazzata, e preferii cambiare argomento.

«Rimani a lungo?»

«Ripartirò domattina se le autostrade saranno sgombre», accostò il bicchiere al portacenere sul ripiano.

«Certo, meglio viaggiare nelle ore diurne, è più prudente, considerato il clima.»

«Già, le strade valdostane sono ghiacciate, o addirittura impraticabili per la neve, il valico mi terrorizza: soffro di vertigini, e sudo freddo, lassù», frugò nella tasca del giaccone da cui trasse un pacchetto di sigarette e l’accendino, e li posò.

«Peccato, evita di guardare fuori dal finestrino», mi sfilai il cappotto dato che incominciavo a sentire caldo.

«Ha, ha, è ciò che faccio, non posso mica permettermi l’autista», scrollò le spalle.

Sorrisi alla sua schiettezza spiritosa e ironica. «Partirò tra pochi giorni anch’io.»

«Esattamente?»
«Il quattordici febbraio.»
«È San Valentino, cade di lunedì», fece notare.
«Mai festeggiato, io celebro San Faustino», alzai le spalle.

«Spiegati.»

«Mi disturba l’idea di solennizzare l’intimità, San Faustino è il patrono dei single.»

«Ah, sì? Lo ignoravo. Quando ricorre?»
«Il quindici», scrutai la reazione.
«Ah, il giorno successivo, una strana casualità.»
«Ehm, è giusto ricordare gli innamorati, le coppie, ma anche chi sceglie la singletudine», accostai la tazza bollente alle labbra.

«Vorrei festeggiare almeno un San Valentino con la mia ragazza.»

«Mai fatto?» Dissentì. «Però, concordi che la festa degli innamorati, cristallizzata in un rituale collettivo, è uno stigma privo di autenticità?»

«Detesto le ricorrenze imposte dal consumismo. Però preferisco celebrare i sentimenti ogni giorno.»

«Il che equivale a glorificarli», esclamai colpita dalla sua intensità.

«Già, ma è complicato», si accese una sigaretta.

«L’eros è il più concreto degli istinti, fondamentale a mantenere la vita», convenni in tono melò. «Meglio non parlarne», aggiunsi lieve.

«D’accordo. Dove andrai?»

«A New York City, seguirò un corso d’aggiornamento sulle neoplasie.»

«Complimenti, è un’esperienza interessante.»

«Però c’è il contrappasso: potrei patire il fuso orario, il clima, i luoghi, il cibo, la cultura.»
«In un paio di giorni, sarai acclimatata.»

«Speriamo.»
«Rimarrai a lungo?»
«Un trimestre per incominciare», lasciai in sospeso le congetture sui possibili sviluppi del programma. «Ti auguro una buona permanenza.»

«Grazie», annuii, raccogliendo i fiocchi di panna sui bordi.

«Sono a mio agio con te.» La confessione mi stupì, e non seppi rispondere a tono: i complimenti mi imbarazzano.

«Mi dispiace partire», proseguì scrutandomi. «Ora che ti ho conosciuto. Vorrei incontrarti al tuo ritorno.»

«Può darsi.»

«Hai mai visitato la Svizzera?» Dissentii, e lui disse che bisognava rimediare al più presto. Risposi che mi sarebbe piaciuto visitare la zona dei laghi e molte fabbriche di cioccolata.

Sorrise divertito. «Ma se vivi nel paese dei baci.»
«Ehm, sono ghiotta, non ne ho mai abbastanza.»
«Ti faccio una promessa: a maggio verrò a prenderti e ti farò vedere i dintorni di Berna e i laghi.»
«Fantastico. Verrò, ammesso che te ne ricorderai ancora.»
«Come potrei dimenticare», sospirò.
«Devo andare adesso», tagliai corto intimorita dall’allettante minaccia.
«Buon viaggio.» «Grazie, anche a te.»

Il ritorno

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Villa Umbra, venerdì 15 giugno

Sera

New York è dinamica, passionale e faticosa, una sfida superata e vinta. Porto con me esperienze rilevanti e vantaggiose scoperte scientifiche. Il bagaglio professionale si è arricchito di conoscenze aggiornate, buone prassi, farmaci sperimentali e tecniche all’avanguardia.

In ultima analisi il soggiorno si è rivelato frenetico, è davvero difficile tollerare quei ritmi per chi è abituato alla calma europea. Il rientro è stata una liberazione, idolatro la composta provincia umbra.

Un ciclo si schiude, attendo i mutamenti in uno scenario vitale dovizioso d’eventi, anelo conoscere sapere vedere. Vedremo che cosa ha in serbo il destino, intanto elaboro e sperimento la quotidianità: il riposo, le visite, le passeggiate in campagna, le escursioni sulle amene colline, e mi proietto nell’imminente.

La mattina seguente

Ho schiuso i cigli. Quale mirabile stupore, sono tra le coperte nel talamo in ferro battuto, che m’accolse giovinetta.

Percepisco la frescura primaverile, filtra dalle crepe dei telai antichi, e il profumo di caffellatte, che sale dalle cucine, diffonde nelle camere note speziate di piacere.

Risento ancora i tormenti passati, gli impegni grevi, e il disordine quotidiano, la confusione mentale, i pianti, il fisico esausto, l’ossessione diurna, le dolcezze notturne. Telefono a Mike per dirgli che lo amo, e ringraziarlo d’avermi voluto bene. Percepisco ancora le sue carezze sulla pelle, nei recessi latebrosi, sui seni turgidi. Rivivo l’intimità e quel senso mistico del sesso con lui.

Pomeriggio

Lieta novella: stamane è nata Sara; me lo ha comunicato Paolo poco fa; era emozionato, il neo papà.

L’adorata Melissa è madre, inveterata prosapia. Desidero fare un omaggio alla puerpera e alla puella neo nata. Ho nostalgia degli interminabili chiacchiericci infantili, ritorna l’algia, il rimpianto di ciò che è trascorso, lontano.

La malinconia diviene nostomania, smania del ritorno, mi struggo nel desiderio di riguadagnare i luoghi remoti. Nella imago distante s’annida il coagulo indistinto della gelosia, ogni cosa che fu vorrei fosse.

Melissa e Lucinda sono le predilette: Meli ha il potere di attenuare i drammi, possiede l’innata esperienza del Pathos, e l’ineffabile e pietoso anestetico. Anima antica, tutto conosce e tutto ha sofferto, ma sa rinnovarsi, morire e rinascere.

Stringere una tenera creatura di luce è una magnifica illusione.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Sabato 23

«Devi raccontarmi i particolari dell’avventura stars and stripes», ironizzò Miriam al telefono ierlaltro.

«Ah, molto stress e neppure una stella», la replica sorniona.

«Impossibile», negò convinta. «Mi sei mancata, vieni a cena da noi», la lungaggine strascicata delle vocali tradusse in suono lo spazio. Si definì una ficcanaso che voleva conoscere l’intera esperienza. La conosco, è smaniosa di riannodare l’intesa con me, mi è affezionata, e io le sono devota.

Durante la serata, assistetti a un dialogo assurdo tra lei e il consorte, un battibecco insensato, nato da uno sciocco pretesto. Il litigio latente esplose improvviso e incontrollato, ne trascrivo alcune battute secondo il ricordo.

«Non mi capisci.»
«Neanche tu», la replica di Friedrich.
«Ti sbagli, io mi immedesimo in te. Ti comprendo e ti amo; invece tu sei incapace d’amare.»
«Falso, a me piace fare l’amore.»
«Ma ti limiti a quello.»
«È gradevole, ti è spiaciuto fare i nostri figli?»
«Taci, insensibile.»
«Ma se ripeti sempre che dobbiamo comunicare.»
«Tu vuoi parlare quando io guardo le fiction. Esci tutte le sere con gli amici. Fai qualcosa coi bambini, piuttosto. Ti vedono di rado. Ricordati che sei il padre, il loro modello, l’esempio da seguire. Conta il benessere comune, non il tuo piacere.»
«Lo so, amore mio.» Baci, bacini, tutto finito.

Se penso che fra un decennio potrei recitare un copione identico a questo, deduco che il ménage di coppia è infernale. Mai mi sposerò, la mansione coniugale è irragionevole e terrificante. La conoscenza, sia pure superficiale, della progredita civiltà statunitense mi fa temere il peggio. La società europea si avvia a eguagliare gli standard americani che preconizzano, in una visione futuribile, la conduzione familiare, sia nei nuclei elitari, sia in quelli popolari.

Parto dall’assunto che la diversità fra i sessi è una ricchezza da salvaguardare, e mi chiedo se esista una grazia, o un’equa maniera d’agire sulla base immersa in un ambiente socio- culturale involutivo, i cui assunti e le norme etiche si vanno dissolvendo. I principi tradizionali perdono valore, ma non emergono dei validi sostituti, i divorzi aumentano, i conflitti profanano i venerati focolari, la convivenza assume connotati drammatici. Bisogna costatare la tremenda verità: la dea familia è caduta in rovina, piena di crepe, sta per crollare.

La mia è nata asfittica, però ha fatto di me una ragazza tenace e combattiva in apparenza, invero sono fragile, inadatta a vivere appieno gli affetti e i vincoli. I legami soffocanti mi atterriscono, stento a innamorarmi, sono incapace di slanci, ricuso l’unione, la gravidanza è un intralcio imprevisto. Siccome i miei genitori furono né accoglienti, né protettivi, né amabili, ritengo estranei a me i ruoli materni.

Quasi ogni giorno scopro coppie genitoriali anaffettive.

Nella progredita e civilissima New York, ho visto padri e madri compiere azioni ignobili contro la prole, parlo sia di gesti diseducativi, sia di brutalità verbale e fisica. In un centro commerciale assistei ad alcune scene scandalose e improbe.

Una coppia accese un violento litigio fra le corsie e le merci, incurante dei propri bambini e delle occhiatacce degli avventori. Poi mi intenerì un papà che aveva portato il figliolo a mangiare un panino nell’affollato Mac Donald, li raggiunse una tipa vistosissima, vestita di niente.

Rimasi di stucco: non era la mamma del piccino. Incontenibile, una scintilla erotica esplose fra i tavoli, mancò poco che nell’eccitazione il paparino desse un calcio al bimbo che gli chiedeva di riporre il vassoio, poiché le braccine corte non arrivavano al piano d’appoggio. Fu una pessima giornata.

In seguito, una signora rifiutò d’accompagnare la figliola alla toilette, dicendole sgarbatamente: «Sort it your self», la minaccia di un: «Kick in the ass.»

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

La serie orribile proseguì in una cioccolateria: un padre di famiglia scappò dal locale prima di pagare le consumazioni ai tre figli e alla moglie. Incredibili scostumatezze accaddero il medesimo giorno, nei tre quarti d’ora che rimasi in quella vacua e alienante cattedrale consumistica. Osservai l’avidità, l’appiattimento, l’omologazione, l’insensibilità, la prepotenza, l’individualismo e il tornaconto. Le famiglie moderne sono tutte ugualmente infelici oppure esistono le eccezioni?

La società mi inquieta, i carnefici non meritano attenuanti per gli omicidi, gli abusi sui minori, i traumi che seminano nelle loro fragili creature. Il consesso morale e intellettuale è scomparso, e la cellula primaria é in crisi, e il maschio confuso sceglie l’aggressività. È ora d’infliggere punizioni esemplari e di rivedere gli ideali e i principi fondanti l’intera comunità basata sul nucleo primo, sebbene sia arduo affrontare e risolvere la questione, giacché implica un’infinità di crolli e di analisi variabili.

Si parla di costumi smodati, mutamenti epocali, deterioramento in una civiltà fluida, dove gli eventi sono concatenati, e in cui la decadenza è la costante. I posteri diranno se lo smarrimento è superato e spiegheranno i valori e le virtù emergenti.

Con autentica schiettezza ammetto che il clan è un focolaio accudente, ma può essere anche una gabbia pericolosa che tarpa le ali.

Esistono i progenitori fragili e insicuri, ma anche le buone famiglie, che costituiscono un trampolino di lancio per la prole. Ho conosciuto capostipiti forti, in grado di tendere la corda dell’arco con vigore e far volare in alto i discendenti.

Vi sono antenati fallaci gloriosi meschini eroici, insomma il pater mito non esiste, la mater dea neppure. Tuttavia, le scene di palese e irrefrenabile scortesia, nei luoghi pubblici, si verificavano di rado.

Magari gli avi, riservati e furbi, mal-agivano al riparo da occhi indiscreti, o erano meno infami e rudi di certi padri contemporanei. Le brave persone – bella questa vecchia e desueta espressione – esistono ancora, peccato siano diventate invisibili fra tanta maleducazione.

Relazioni

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Domenica 24

Mattina

Il clima estivo mi giova: la mitezza, le rare nuvole grigie trascinate dal fauno nella trasparenza tersa, simili a vaganti cuscini ovattati, il rigoglio floreale sulle chine dei colli, il ciarlio continuo di passeri e rondini, e il cadenzato fritinnio degli insetti mi hanno ridato il benessere, sebbene io sia lontana da Mike.

Al termine di una lunga camminata solitaria sul tratturo regio, rincasando con un discreto appetito, ho guadagnato la cucina, l’intenzione di prepararmi la colazione. Accostata al lavabo di pietra, ho mosso la leva del rubinetto, il derma bagnato sotto il getto freddo, ma il brivido m’è garbato parecchio. L’erogatore premuto, tre dosi di sapone antibatterico al muschio, le palme e i dorsi insaponati, poi ho risciacquato la spuma soffice e odorosa.

Ho assecondato l’impulso di gettarmi un fiotto sul viso imperlato di sudore, e i polpastrelli sono scesi a incontrare i seni. Uno spruzzo, e le dita gelide sopra la nuca mi hanno fatto rabbrividire e sospirare. Ho tolto un canovaccio di canapa candida da un cassetto e ho tamponato la cute. Poi ho aperto il frigorifero, il trillo del telefono mi ha scosso. Era Milo.

«Che sorpresa, come stai?» «Bene, e tu?»

«Anch’io. Rimarrò pochi giorni. Vorrei vederti, rammenti la parola?», la voce tremante. «Mantengo le promesse», la più ferma aggiunta.

«Ho molti impegni», ho tentato di mantenere le distanze.

«Ti chiedo solo un’ora. Ti prego, non negarti.» Scioccamente mi è mancato il coraggio di rifiutare, malgrado abbia colto nelle vibrazioni vocali accenti morbosi e sgradevoli. Il suo interesse ostinato e pervicace mi sgomenta. «Ti aspetto al Caffè Centrale alle sette.»

Prevedo insidie. Fra Mattia e me tutto procede liscio nelle nottate ora tenere ora infuocate che si replicano in uno sfondo sensuale e destano un’intima contentezza, una buona imitazione della gioia spirituale e dei sensi.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

I giorni successivi.

La sera, ci troviamo al consueto bar. Talvolta, giungo in anticipo, se gli capita d’allungare il giro dei clienti o rimanere imbottigliato nel traffico autostradale.

Ha l’abitudine di spostarsi nelle regioni vicine a vocazione tessile e manifatturiera.

Se un’emergenza dilunga il mio turno in ospedale è lui ad attendere me. Si è rivelato discreto, nondimeno la cortesia formale e artefatta mi disturba. Il carattere coriaceo rasenta la freddezza, e non ho ben compreso se si tratta di scarsa sensibilità o riserbo. Tuttavia, la misura e la pacatezza mi rassicurano; invece un’indole irrequieta, un temperamento irascibile, una personalità squilibrata o psicopatica avrebbe indotto una fuga repentina.

Fra le molteplici aggettivazioni per definirlo la più consona è sfuggente, nasconde qualcosa. Il primissimo intuito scorse un invisibile marchio ingannevole, e l’istinto avvertì un enigma inspiegabile, riti nascosti e dannosi.

Lo scruto per carpirgli gli apparati celati alla ragione e trovo ambigue certe sue occhiate impaurite, i gesti misurati, il tronco rigido. Desidera ardore, eppure è scostante, s’impone un eccessivo autocontrollo, quasi la leggerezza gli sia preclusa. Chissà qual è il suo vero sentire?

«Se sparisci? i distacchi e l’indifferenza mi angustiano», confessai una volta.

«Mai avverrà. Mi affeziono sin troppo. Sarà difficile liberarti di me.»

«Difficile?» avvampai. Confermò.
«Quanto?»
«Tanto.» Un brivido mi scosse le membra, la risposta sincera e brutale mi disorientò. Prevalsero urgenti domande a bruciapelo per capire ciò che pensava lo sconosciuto dagli occhi acquosi in cui intravedevo un inquietante alone di follia, timidezza e inibizione. «Parlami delle tue fidanzate.»

«Non ne ho avute.»
«Sei omosessuale?»
«L’omosessualità è una tendenza, nasciamo bisessuali.»

Esitò, cincischiando sui ginocchi la piega dei calzoni, le palme schiuse.

«Le teorie psicoanalitiche sostengono che la sessualità è fluida», sorbii il Twinings.

«Preferisco la vaniglia», si distolse. Estrarre dal taschino il pacchetto rosso di Marlboro, e me ne offrì una. Ma declinai l’invito. Allora tolse una sigaretta, la portò alla bocca, e fece scattare il pulsante d’accensione, e aspirò.

«Non disdegni gli uomini?» attesi che la nuvoletta evanescente si disperdesse, facendomi pizzicare le congiuntive. Ingoiò una boccata e trattenne il fumo. Alla terza presa, sprazzi azzurrognoli comparirono fra le narici e le labbra. Milo è un duro.

«Mai fatto con nessuno.» 

Rimasi sbigottita, gli arti rigidi. «Strano, sei adulto.»

«Ho seri problemi relazionali che m’impediscono d’andare a letto con una qualsiasi», scosse il filtro con l’unghia del pollice, e la cinigia scintillante cadde nel piattino di cristallo.

«Pensi che un maschio debba desiderare tutte le femmine che incontra? Nessuno ti obbliga a eccitarti alla vista d’una sottana, e a farlo con chicchessia.»

«Infatti ho tante amiche.»

«Ehm, i gay scelgono le amicizie femminili e si compenetrano nel ruolo amicale, poiché cercano consensi.»

«Non è questo, sono timido», spense il mozzicone. «Non mi reputo all’altezza perché non sono dotato», aggiunse con un gesto evitante. L’inattesa sincerità fu spiazzante e fastidiosa, provai un misto di torpore e disgusto e intense contrazioni al cardias: detesto condividere certi segreti.

La confidenza mi colpì poiché rivelava la disistima per la scadente virilità. Mi parve altresì un’implicita richiesta d’aiuto, e mi dispiacque, sia che cercasse una conferma, o un sostegno in me, sia volesse prevenire la delusione.

“Crede di meritare il disprezzo per difetto d’una manciata di millimetri, o è dotato d’un pollice?”, supposi preoccupata.

«Le misure non ti soddisfano?» domandai da vera stupida. Seguì un cenno di diniego. «La grandezza è irrilevante, conta l’uso», interferì l’interiore coabitante crocerossina. Il malsano istinto salvico mi trascina sempre in intrichi devastanti, ricuso il ruolo arbitrale, che vorrebbe accollarmi, e l’autorità di emettere un giudizio in merito al suo gioiello, giacché include le prove a carico. È un debole, e ha deciso d’appoggiarsi a me, fragile e vulnerabile. Prevedo un disastro, debbo ritrarmi, allontanarlo, altrimenti ci faremo del male.

La vita è un miraggio

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Perugia, sabato 30

Sono appena rientrata da Lecce, dove ho riabbracciato Melissa e Paolo. La loro piccolina è deliziosa. Mai avevo toccato una creatura così minuta e potente, capace di sciogliermi in una pozza sciropposa, la slavina ha inondato la più insensibile e recondita cellula, mentre tenevo in grembo l’esserino indifeso. Continuo a pensare a lei, minuscola, deliziosa, nuova donna, e la immagino adulta, delicata e potente, che mira al suo avvenire radioso.

Se rievoco il pianto strillante, ho la netta sicurezza che volesse esprimere l’insofferenza per quel drammatico scherzo che, infine, é il breve scintillio dell’inconsistente meteora che ci trascina nel cosmo. L’esistenza è una beffa, la nascita un intervallo illusorio tra l’Uno e il Nulla. Nella celia esistenziale ho condiviso la collera dell’inconsapevole creatura disperata, che ha compiuto un mese: è nata di maggio. Non debbo offuscare questo miracolo, neppure un pensiero impuro meno che virginale: Sara contiene l’energia dell’universo, ne è l’esuberante personificazione. Il rito battesimale mi ha ricongiunto all’infantile fede, all’adesione ai principi dell’antica dottrina catechistica.

L’evento evoca un’insospettabile fantasia di maternità, già m’immagino genitrice devota e tenera d’una creatura che vestirà di luce.

Traditori e i bugiardi

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Lunedì, 16 luglio

La frequentazione si fa assidua al di là di ogni previsione e intento. Lo trovo attraente e desiderabile, però permangono lo sconcerto iniziale, i turbamenti e la repulsione per le impronte tetre. La dicotomia fra l’attrazione e il rifiuto istintivo mi immobilizza, ammetto la fallacia della ragione dinanzi all’inconoscibile, ma l’istinto scova orme che l’occhio del raziocinio non coglie.

Ho due vie: ingigantire i dettagli attraverso progressivi ingrandimenti, e svelare i particolari inquietanti e dolorosi, oppure rinunciare per non acuire la sensazione d’impotenza.

È elevato il rischio ch’io possa sostituire il concreto con un’effige sgranata di esso, scoprendo le incongruenze, senza comprendere la sua psiche di natura ctonia. Mille dubbi mi assillano, ma prevale il convincimento che egli appartenga al genere dannato e impossibile, algido intellettuale respingente.

Un giorno, mentre mangiavamo in una trattoria, davanti ai piatti prosaici della cucina popolare umbra, vagheggiammo le attese future. All’improvviso scaturì in me una sorgente inarrestabile di schiettezza, una irragionevole urgenza di confessargli la mia intimità. Ora me ne domando la cagione. E, ragionandoci su, mi convinco che i cenacoli-confessione, farciti di notizie inedite sul mio privato, prevedevano l’assoluzione del cenobiarca. Dunque mendicai la remissione dei peccati dichiarati, mostrandomi nei panni di penitente implorante il perdono per il fio commesso.

Fu un errore inaudito, una svalutazione del mio valore etico, poiché le mie unioni affettive o sessuali riguardano solo me: niente di ciò che ho fatto può nuocermi. Ho sofferto tutte le volte che ho amato: la libido mi rende vulnerabile, poiché, per qualche misterioso infingimento, l’amato si arroga il diritto di giudicarmi: santa o depravata. Incapace d’ipocrisie, ho bisogno d’essere vista, riconosciuta e amata per ciò che sono. Anch’egli ha confidato le proprie manchevolezze e l’infima autostima. «Ho amato alla follia una delle mie impiegate, scelsi di ritirarmi perchè era sposata. Ho avuto una sola fidanzata.»

«Ne eri innamorato?»

«Mah, non saprei. No. Prese lei l’iniziativa; si chiamava Mirella, la conobbi un’estate in Costa Azzurra dove soggiornava con le amiche. Ero partito da solo, mi rimorchiarono subito. Sarò immodesto, ma mi puntarono appena scesi in spiaggia e mi abbordarono in pochi minuti.

Trascorremmo una bellissima estate insieme. Al rientro ci fu un seguito inatteso. Mirella m’invitò per un weekend, e molti altri ne seguirono. A fine settimana partivo all’alba diretto al suo paesello alpino. Le serate gastronomiche in comitiva si alternavano alle feste di piazza. Talvolta, si prospettava un concerto o uno spettacolo teatrale, stile oratorio, allestito da una compagnia amatoriale, talaltra, per sfuggire agli amici invadenti o alla monotonia, proponevo un buon film.

In tali occasioni eravamo costretti a spostarci in qualche cittadina nei dintorni. Una sera assistemmo al film Yol, Strada, diretto da Yilmaz Güney, coadiuvato da Serif Gören. La pellicola d’enorme spessore artistico è un manifesto di denuncia all’oppressione del governo turco. Ne hai sentito parlare?» Feci un cenno di diniego, e lo pregai di proseguire.

«È un affresco socio-politico della Turchia, un paese pieno di contraddizioni che mira all’Europa, eppure rimane fedele agli usi ancestrali. I tribunali turchi hanno condannato il regista a cinque ergastoli per delitti d’opinione. Scrisse la sceneggiatura in carcere, ma il film fu girato dal suo assistente, Serif Goran, e montato da Güney in Svizzera.»

Lo interruppi. «Come fu possibile?»
«Yilmaz evase e raggiunse la Confederazione».
«Ehm, interessante. La trama di che cosa parla?»

«Documenta l’arretratezza, lo spietato regime militare, la condizione femminile e la questione curda. Il pretesto narrativo è dato da un quintetto di detenuti che ottiene una licenza premio di otto giorni per fare visita alle famiglie. Le singole storie si sviluppano in un intreccio complesso, che evito di narrarti. A fine spettacolo la riaccompagnai. Durante il tragitto, discutemmo neanche fossimo dei critici cinematografici, la musica di sottofondo. Giunti a destinazione parcheggiai nel piazzale antistante la parrocchia, e continuammo a conversare. All’improvviso mi cinse, m’infilò la lingua in bocca, e tentò l’intimità.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Mi ritrassi schifato dall’umidore del bacio, incapace di abbandonarmi. Rimase delusa. Il timore che qualche passante scorgesse le nostre effusioni, la pietosa giustificazione. “Il clima è gelido, e la gente resta al chiuso”, obiettò lei, perlustrando la piazzetta deserta. In effetti, era autunno avanzato. Vero è che non mi piaceva. Per rimediare la invitai nella pensione in cui alloggiavo, ma rifiutò adducendo a pretesto la rispettabilità e il decoro. Se avesse dormito in albergo, i compaesani l’avrebbero saputo. Ritenevo comodo e discreto farlo al caldo, piuttosto che incrocicchiati nell’abitacolo di una vettura, davanti alla chiesa, alla mercé dei curiosi e dei pettegoli, ribattei. Fu irremovibile. Ma rispettai il suo volere e la riaccompagnai, vogliosa e delusa.»

Mi scappò un sorriso, smise di raccontare, e accese una sigaretta. «Che cosa accadde, in seguito?»

«Feci una doccia, e mi coricai.»
«Riuscisti a dormire?»
«Crollai sotto il peso dell’imbarazzo. L’indomani ripartii all’alba, l’intenzione d’arrivare in azienda prima degli operai. Strada facendo, mi dissi che avevo evitato il rischio di ritrovarmi fidanzato. Mirella era simpatica e colta, peccato mancasse di grazia e bellezza.»

«Insomma non smuoveva l’appetito.»
«Esatto, lui non collaborava.»
«E poi?»
«Declinai gli inviti successivi, preferii dare un taglio netto alla frequentazione, comprese.»
«Bene, è ingiusto fare soffrire, facesti la cosa migliore, almeno non s’illuse.»
«Non si trattò di premura, fu piuttosto il timore del fallimento: l’idea di fare sesso con lei mi terrorizzava, poiché l’impresa soverchiava le mie forze.»

«Ah, povero. Trovo delizioso e struggente questo tuo lato femminile.»

«Spiegati», mi fissò.

«Una ragazza si concede se è attratta o innamorata, invece voi maschi siete più disinibiti. Vale anche per te il detto: basta che respiri?»

Sorrise e dissentì. «Funziono solamente se lei mi eccita.»

«Noi eleggiamo il prescelto.»
«Siete strane, vi innamorate del tipo sbagliato che vi fa soffrire, e non vi accorgete dei ragazzi che vi amano.»
Annuii. «Anch’io sbaglio a giudicare, mi fido troppo.»

«Non direi. Sembri diffidente», premette il mozzicone nella ceneriera.
«Mah, sono disillusa.» Non replicò.
Sto imparando a conoscerlo: è totalmente dedito al lavoro, ne è quasi schiavo. Un carcinoma intestinale uccise il genitore in pochi mesi, ed egli dovette assumere la conduzione della ditta, che era appena ventenne. La madre, discendente di emigranti toscani, mancò di lì a poco. Jean, il fratello minore, andò a studiare a Ginevra. «È impiegato presso la Banca Elvetica, ha sposato una bella ragazza, e hanno due figli», raccontò in tono mite.

Milo è un animale solitario, prigioniero in un dedalo di ambiguità e contraddizioni che una mente lineare fatica a interpretare, ha molte voci e multìvoli appetiti.

Ancora c’era la pace, ero solita salire in cima alla Torre degli Amanti, ove battevo un sasso sui marmi armoniosi, vi posavo la bocca e trasmettevo i pensieri alle pietre. Di lassù guardavo incantata le vie dell’avvenire. Ora sono persa nelle troppe strade e fra le mille sfaccettature femminili che convergono, configgono e si amalgamano in un complesso intreccio psichico nel quale sono purissima e perversa; eroica e derelitta; figlia e sorella; fedele e traditrice stritolata da amori agli antipodi, tante volte morta e altrettante rinata.

Vivo al confine tra il matriarcato e il patriarcato, subisco il fascino delle novità e l’attaccamento all’antico, possiedo l’ermeneutica, l’arte di interpretare il significato dei messaggi degli dei, giacché, in quanto femmina, ho il dono dell’esegesi della vita.

Gentiluomo

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Giovedì 26

Domani partirò. Sto per raggiungerlo a Berna. Avrebbe voluto venire a prendermi, ma ho declinato l’offerta. Ho girato il pianeta e varcato gli oceani, posso attraversare le Alpi a bordo di un rapido. Ho respinto anche l’ospitalità, mi pareva troppo intima. Gli ho chiesto di prenotare allo Strass Hotel.

Martedì 31

Venerdì sera il treno giunse puntuale. Lui era nel settore preposto al vagone: lo scorsi dal finestrino.

«Desideravo riabbracciarti», esclamò, deponendo due baci lievi sulle gote, poi prese il mio bagaglio. «Il viaggio è stato gradevole?»

«Direi rilassante.» Ci avviammo al parcheggio dei veicoli privati e salimmo nella sua vettura.

«Domani, vorrei farti visitare una fiera che abbiamo organizzato noi artigiani e industriali bernesi, vi espongo anche i miei manufatti.»

«Oh, interessante, dove si svolge?»

«Nel castello di Utzenstorf, un villaggio a circa venti chilometri da qui, verrò a prenderti, domattina.»

«La località è in montagna?»

«No, è situata nella vallata del fiume Emme, tra le Alpi, in un panorama meraviglioso.»

Aveva prenotato la cena, e sperava non avessi mangiato in treno. Avevo un discreto appetito, risposi, e assicurai che avevo assimilato da un pezzo il panino e il frutto trangugiati a colazione, la fetta di torta e l’Earl Grey presi alla tavola calda.

Parcheggiò negli spazi riservati agli ospiti, si affrettò ad aprirmi la portiera, tolse il borsone dal bagagliaio, chiuse l’auto e mi scortò nella hall.

Mentre mi registravo all’accettazione, sedette in poltrona e sfogliò il Berner Zeitung. Il fattorino mi accompagnò, portando il bagaglio. Approfittai dell’occasione per rinfrescarmi, prima di scendere al ristorante annesso allo Strass. A fine pasto Milo volle sorseggiare un brandy, io ordinai una camomilla per conciliare il riposo. Dopo aver bevuto la tisana calda, avvertii una spossatezza improvvisa, e glielo dissi, soffocando uno sbadiglio. Si accomiatò con un abbraccio e la buonanotte.

L’indomani giunse puntuale.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Appena uscimmo dal centro, lungo la statale Berna Soletta, i villaggi di Bätterkinden e Kräiligen sbucarono in una scena d’incanto; ammirai i prati fioriti irrigati dai torrenti cristallini, i tappeti verdi tagliati di recente, i borghi e le baite solitarie. Superammo l’Emme, passando su uno dei numerosi ponti, e proseguimmo per il maniero di Landshut.

«Ha ancora il fossato colmo d’acqua», mi informò.
«È medioevale?»
«No, seicentesco, è l’unico tutt’ora intatto nella Regione di Berna. Due ponti attraversano il fosso e portano in un vasto parco, ricco di alberi centenari, alle cui fronde sfilano i box espositivi. L’interno ospita il Museo Svizzero della Fauna e della Caccia.»

Al proprio stand mi presentò i suoi collaboratori affatto sorpresi. Una breve sosta, poi mi fece visitare le sale debordanti prodotti locali. Intense note odorose mi guidarono a un banco e a una miriade di essenze, i profumi mi ammaliarono, ne provai alcuni. Altri articoli catturarono il mio interesse, e proseguii oltre, mi girai per porgli una domanda, ma s’era allontanato. Mi volsi intorno, e lo vidi parlottare con il profumiere: scelse una boccetta di ceramica e alcuni flaconcini e li consegnò al mercante, il quale mi fissò e sorrise. Ricambiai con un cenno, non potei vedere l’espressione di Milo poiché era voltato.

Osservandolo, scoprii in lui una galanteria estetizzante. “Si distingue per la regalità dell’incedere, i modi raffinati, l’eleganza, capelli corti scurissimi, la carnagione olivastra, le pliche labiali carnose, rotonde e attraenti, la statura che sovrasta tutti. Però mi spaventano i guizzi taglienti e infuocati, indici del suo acume e dell’intelletto vivace”, ammisi, curiosando tra le merci e lanciando occhiate furtive nella loro direzione. Il commerciante depose l’ampolla e le fiale in una scatolina, poi preparò una confezione regalo. Ammirai i banconi e le vetrine espositive, fingendomi indifferente.

Pochi minuti dopo, s’avvicinò, mi porse il pacchetto con armonia sublime. «Un omaggio.»

«Sei cortese», lo guardai ammirata.

«Vieni al fresco.» Nel prato vi erano alcuni tavoli e sedili sotto una tenda ondeggiante al flusso ascendente. Sedemmo vicini, slegai il fiocco decorativo, scartai la confezione, e aprii la scatolina: un bouquet denso investì l’olfatto.

«Buono», sussurrai, avvicinando le narici.
«Ti piace?»
«Sì, è pastoso», annusai una fiala sigillata esalante un odore stucchevole.
«Sono essenze fitoterapiche per ambienti.» La scatola conteneva un sottovaso circolare in scorza di sughera, una bottiglietta panciuta, chiusa da un tappino di sughero, smaltata in avorio e decorata con minuscoli capolini gialli e verdi. Bisognava versare l’essenza nell’ampolla, tapparla, e infine porla sulla base. Il fondo grezzo assorbiva l’effluvio, poi lo sprigionava nell’aria.

«Grazie, buono, che cos’è?»
«Si ricava dal frutto della passione.»
Il dono m’intenerì. «Oh», tacqui confusa e spaventata. Che sia lui?

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Domenica mattina, arrivò alle nove.

Durante la colazione, annunciò l’intenzione di condurmi in una località magica sul lago Murten, a meno di dieci chilometri. Partimmo sotto i cupi nembi antracite, ascendenti e minacciosi, sospinti qua e là dalle correnti.

Trascorsa una decina di minuti, un fulmine squarciò il panorama, lo seguì il rimbombo del tuono, balzai sul sedile. Sperava di giungere alla meta prima del temporale ma, appena imboccò la litoranea, una goccia pesante si ruppe sul finestrino con un tonfo secco e colò lungo il vetro.

Procedé indifferente alle violente folate e ai rombi che rincorrevano i lampi presagenti l’imminente tempesta.

Il periplo del Morat o Murtensee era sgradevole: la pioggia battente rallentava l’andatura e mi toglieva il respiro.

Proseguì sull’asfalto inondato, la visuale impedita dalle secchiate sul parabrezza e dalle cascate aeree. Raggiunse un borgo, e parcheggiò in una piazzetta allagata. Ormai non v’erano confini tra le acque lacustri, l’aerosfera scura e la terraferma. Eravamo gli unici viventi nella marea crescente: la superficie scura e mobile incombeva a dismisura da ogni lato, l’angoscia saliva in simbiosi con la perturbazione.

Incominciai a tremare, non di freddo, i polsi scossi da impercettibili fremiti: l’istinto preconizzava eventi funesti.

«Qui siamo in pericolo», temevo il risucchio della corrente.

«Non è il caso di restare fermi.» Avviò il motore e si rimise in marcia. L’acquazzone diminuì verso Berna.

Fu prudente alla guida, e dimostrò coraggio, quando annunciò che voleva una storia con me. La dichiarazione giunge soffusa dal fragore, temetti d’aver frainteso.

«Una storia?» ripetei. Annuì.

Le mie mani fluttuarono, premonitrici di chissà quali esiti futuri, intrecciai e contrassi le falangi per arrestare l’agitazione. «Sono impreparata. Mai avuto un vero legame.»

«Puoi iniziare oggi.»

«Certo, un rapporto già esiste dato che sono qui con te, ma ne ignoro l’evoluzione, non impormi scelte frettolose e coercitive, vedremo.»

«D’accordo», rispose aspro.

Anime affini

La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

La tempesta ci seguì. Scesi dall’auto che diluviava, mi protesse accompagnandomi alla pensilina, l’intenzione di recarsi in azienda a verificare l’entità del disastro. «L’ultimo temporale scoperchiò il tetto e allagò il laboratorio, fu necessario l’intervento dei pompieri», annunciò teso.

«Spero non vi siano altri disastri.» La prospettiva di rimanere sola qualche ora mi sollevò il morale: desideravo fare una doccia calda per liberarmi dal terrore invasivo e dal freddo che saliva dagli arti inzuppati e penetrava nelle ossa.

Sarebbe ritornato per l’aperitivo, promise. «Ho riservato due posti in un ristorante tipico», asserì corrucciato.

Annuii. «Se hai problemi chiamami, mangerò un boccone allo Strass.»

S’aggrondò. «Il maltempo non scombinerà i miei piani, ho intenzione di trascorrere con te l’ultima giornata, scusami se non entro, ma gocciolo.» Le chiavi tintinnarono, il parapioggia grondante, e le scarpe ciangottavano. Per riparare me, s’era preso i rovesci. Un abbraccio frettoloso, poi schiuse l’ombrello di seta scura, e raggiunse la vettura a rapide falcate.

Rimasi a fissare l’automobile mentre allontanava fra le scie ondose dei battistrada: gli intagli e le scolpiture dei pneumatici sollevarono alti spruzzi, che si fransero sui finestrini. Il veicolo ebbe un lieve sbandamento, ma ritrovò subito l’aderenza al suolo e si dileguò nella massa di goccioline condensate.

Salii in camera. Mi denudai, aprii il rubinetto, e testai la temperatura, il braccio teso, entrai nella cabina, sotto il getto tiepido. Stetti immobile, preda di un’ansietà sottile, la cui origine era avulsa dai recenti accadimenti. Era insita, invece, in presentimenti indefiniti che, preannunciatisi al risveglio, si erano acuiti con la furia temporalesca e persistevano, neppure il fluido riuscì a stemperare il malumore.

Misi l’accappatoio, tamponai le chiome e le avvolsi nella cuffia di ciniglia. Supina, le caviglie incrociate e le pupille fisse alla lamia, respirai piano e attesi di vedere svanire le ombre. Mi sovvenne Villa Umbra, balzai a sedere e chiamai il centralino. Poi l’impiegato mi passò la linea.

Riconobbi Lei. «Come va?»
Esitò. «La nonna è ricoverata.»
«Che cos’ha?»
«Ha avuto un’emorragia cerebrale, stamane.»
«Oh, è in coma?» la domanda morì in gola.
«No, è cosciente, l’ictus ha colpito una micro zona.

Lucinda ha capito che era in atto un’alterazione circolatoria cerebrale e ha richiesto l’ambulanza. Il medico del pronto soccorso ha disposto il ricovero. Ora, è vigile, ma dissociata.»

«Chi c’è con lei?»
«Papà e Lucinda.»
È accaduto mentre andavamo a Murtensee, pensai, soffrendo per lei, poiché le nostre anime sono vicine e vivono in una magnifica affinità telepatica. Decisi d’anticipare la partenza: il desiderio di rivedere l’ava mi vinse, se fosse morta, mi sarei incolpata per l’assenza, so che a uno stroke lieve può seguirne uno mortale.

Asciugai le ciocche e riorganizzai gli intenti: impensabile salire su un taxi, lasciare un biglietto alla reception, e andare.

Feci chiamare Milo, ma invano. Il piovasco imperversava, poteva trovarsi ovunque: disperso nella campagna, o in fabbrica. Il tentativo di raggiungerlo fallì, se si fosse trovato in un angolo dell’opificio distante dall’apparecchio telefonico, il frastuono avrebbe coperto il trillo, quindi ritenni inutile insistere. Risolsi di attenderlo, mi incipriai e mi vestii, infilai gli indumenti umidi in un sacchetto impermeabile e lo misi in fondo alla valigia, vi posi sopra il pigiama, un paio di pantaloni, un golf di cachemire, le creme, lo spazzolino, e i pochi cosmetici che avevo portato.

Accesi la TV e cercai di distrarmi, intanto la me sottomessa pianificava le scuse da presentare. Stabilii di raccontargli il vero, aggravando il malore, dopodiché gli avrei comunicato che intendevo recarmi alla ferrovia.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

In effetti, la faccenda si svolse secondo il mio disegno. Tornò per la colazione, fresco di bagno, profumato di Marte, in doppiopetto, i calzoni e le calzature asciutte. Gli elementi si erano placati; i cumuli, svuotati dai vapori acquei, si dissipavano e cedevano al sereno.

«Non è il caso», ribatté deciso.
«Sento di doverglielo.»
Fece dei cenni di dissenso, sicuro di sé. «Pensi di trovare posto?»
«Vorrei provare.»
Oppose un ostinato rifiuto. «Adesso pranziamo, ti accompagnerò io.» L’espressione escludeva le repliche, ma rifiutai gentilmente. «Non hai scelta.»

Mi risolsi a gustare la portata, intingendo i crostini abbrustoliti nella fonduta al formaggio, servita nel caquelon, la tipica pentola di ceramica.

Mi convinse un argomento inoppugnabile: il viaggio era un buon pretesto per concludere alcune questioni in sospeso.

«La nonna starà ancora lungo con voi», mescé il vino.
Il suo conforto mi spinse ad accettare la proposta, seppure a malincuore, ma non potevo offenderlo con un rifiuto.

La seconda pietanza, una gustosa costata di maiale in salamoia o rippli, fu accompagnata dal rösti, una schiacciata di gschwellti ovvero patate grattugiate rosolate in padella nel burro caldo, innaffiato di Pinot nero.

Presi una porzione scarsa poiché temevo di non digerire il piatto elaborato. Chiuse il pasto il birchermüesli, accompagnato da un calice di Riesling bianco. Seppi che, nel 1900, il medico Maximilian Oskar Bircher Brenner creò il dolce unendo fiocchi d’avena, succo di limone, latte condensato, mele grattugiate e mandorle.

In albergo, pagai il conto, mi sedetti in salotto, presi un digestivo e attesi Milo che era andato a cambiarsi e a recuperare il necessario per il breve soggiorno.

da La figlia del Sole di Giuseppina D’Amato

Nell’oscurità la macchina sportiva sfrecciava sulle vie deserte. Viaggiammo per ore, muovendoci tra le costellazioni nel regno stellare, il buio ci avvolgeva e inghiottiva gli abbaglianti dei fari, mi feci trasportare nel sonno, poi percepii l’aurora foriera del pulsante dì, e mi riscossi.

«Hai riposato?»
«Sì, scusa. Non ti ho aiutato a rimanere sveglio.»
«Sono abituato a viaggiare di notte.»
«Non temi i colpi di sonno?»
«No, sono un animale notturno, mi addormento all’alba.» «Invece, io mi corico all’imbrunire, debbo riposare almeno dieci ore per essere efficiente.»
«Che ne dici se mi fermo in un autogrill a bere un cappuccino?»
Ne approfittai per telefonare a Lei. «Arrivo con un amico.»

«Speciale?» Dissentii. «Che tipo è?»

«Gentile e disponibile.»
«Però, in questa ambascia», esitò disapprovante.

«Alloggia in una pensione.»

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Leggi L’Incipit del romanzo Il profumo della passione di Giuseppina D’Amato

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